Dicembre 2015: weird questions to ask a teacher

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Il cambiamento cominciava ad essere in atto.

A fine ottobre, la prima volta che lo studente malefico mi chiese:

“Dove va a ballare prof per Halloween? Se va lì, ci vengo anche io”, bhe, io rabbrividii disgustata e seriamente terrorizzata al pensiero che lui o un qualsiasi studente potesse beccarmi fuori dall’ambito scolastico con un bicchiere in mano in una qualsiasi discoteca a divertirmi con gli amici. E chiaramente, risposi infastidita negando, dato che sì, sarei andata proprio in quel posto,  e l’ultima cosa che volevo era trovarmi un alunno davanti magari mentre ero sbronza e vestita da apetta sexy, per dire.

Cacchio, leave me alone, mollatemi, fatemi staccare il cervello come si deve, dopo una settimana in quella gabbia di matti, volevo potermi divertire senza stare col pensiero che il giorno dopo quei guastafeste che mi avevano visto in giro facessero commenti inopportuni in classe.

Peccato solo che due mesi dopo, l’idea di incrociare uno di loro, già non mi terrorizzasse più. Stavo cambiando approccio, mi stavo sciogliendo, mi stavo aprendo di più verso di loro.

E alla domanda:

“Prof, ho due biglietti..Ci viene con me a vedere Mai Dire Gol?”, quasi mi è dispiaciuto dover dire di no. Cacchio, il mio programma preferito (ovviamente non era quello, ho censurato!)

Una delle prime domande che mi fece sempre lui, lo studente malefico, credo addirittura alla prima lezione, fu:

“Ma lei se l’è mai fatta una canna, prof?”

No no, guarda, il mio genere preferito è il reggae, ascolto solo Bob Marley tutto il giorno e Snoop Dog è un novellino rispetto a me…

“Ehm, non credo che questa domanda sia attinente con l’argomento della lezione…” ho farfugliato, incapace di negare l’evidenza. Che sfacciato, lui. E che tonta, io.

Chiaramente cominciarono subito a fare domande personali, alle quali ovviamente non davo loro la soddisfazione di rispondere, indagavano come piccoli Sherlock Holmes come se la mia vita fosse improvvisamente diventata oggetto dei loro studi. Io glissavo sempre, ma era ancora peggio, perché così sembrava volessi tirarmela e fare la misteriosa, invece volevo solo che si facessero gli affari loro e non volevo spiattellare i miei, ma poi mi resi conto che così sembrava che dovessi nascondere chissà quali arcani e  segreti, quindi alla fine mi arresi e scoprirono, fra le tante cose, che ero fidanzata.

“Nooo prof, lei ha il ragazzo??” ulularono a gran voce con facce deluse.

“Mannaggia” continuò lo studente malefico, e fece un gesto come a dire “eh, sennò…”.

Sennò un corno, gli avrei detto. Stai al tuo posto. E fly down, plz.

Sempre allora, eh. Che la mia scorza da dura cominciava ad ammorbidirsi e le barriere che avevo creato a cedere, pian piano… perchè bho, per quanto volessi mantenere le distanze, più stavo nel mondo degli adulti, lavoratori, ammogliati e annoiati, con prole a seguito e terribilmente ingrigiti, e assimilavo il loro modo di pensare, così terribilmente standardizzato e fatto a scadenza, più mi rendevo conto che ero più simile ai miei studenti che a loro. Solo che me lo tenevo per me. I miei studenti ancora erano pieni di vita, spensierati, spericolati, che poi è la caratteristica più bella di quell’età, e io, vedendo i trenta inesorabilmente più vicini rispetto a qualche anno prima, non volevo arrendermi ad una vita piatta e omologata e avevo ancora voglia di uscire e star bene, far serata, divertirmi, girare il mondo, vedere cose nuove. Certo, il tutto sempre responsabilmente. Una volta ogni tanto. Diciamo pure una volta ogni passata di papa, visto che il lavoro mi assorbiva fino al midollo. Ma dentro di me ribolliva ancora lo spirito ribelle della ragazza che ero sempre stata fino a poco prima, la studentessa universitaria che si gode la vita. Mi sentivo castigata dentro ad un realtà che non mi apparteneva, ma sapevo che dovevo responsabilizzarmi e lo accettavo con quieto assenso. Anzi, mi piaceva lavorare sodo e guadagnarmi il pane per poi spendermi i miei soldi come decidevo io.

 

 

Love again

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Sto ascoltando il nuovo album di Zucchero…il nostro grande blues man

Tutte belle canzoni, alcune più spinte e decisamente rockeggianti, un vero inno alla vita, altre più introspettive e malinconiche, dietro ha un team di musicisti assurdi e non certo di primo pelo – Mark Knopfler, leader dei Dire Straits, vi dice niente? ;)- che ovviamente hanno reso il tutto spettacolare.

E poi c’è questa, Love Again, una ballata struggente e dannatamente malinconica che mi perseguita… E ti culla come una ninnananna inesorabile che parla d’amore. D’amore e quindi di persone…presenti o passate. Io col mio mood attuale, ci leggo di persone perse che il tempo non ti ridarà mai indietro. Che però sono parte di te ormai..e quindi pervadono tutto il tuo essere, e il tuo spazio. Ogni cellula del tuo corpo e del mondo che respiri.

Ognuno può vederci ciò che vuole…chi un amore perduto, chi un’occasione mancata, chi una persona cara che non c’è più.. Voi cosa ci trovate?

La frase finale mi sembra un inno alla vita, uno spronarsi ad andare avanti.

Ho evidenziato le parole più incisive per me in questo momento..chissà perché quando si sta passando un periodo un po’ delicato si ritrovino riferimenti personali ovunque e sembra quasi che il mondo ti stia mandando mille messaggi subliminali…mah..

Enjoy it!

 

Love again

Love again
Love again
Come sollievo di lacrime

Love again
Love again
Col cuore gonfio di polvere
Uh ritornerai
Come la manna d’estate
So dove sei

Abiti qua dentro di me
Fuori di me nell’universo
Abiti qua sotto la pelle
Oltre le stelle nell’universo

Love again
Love again
Disteso in campi di fragole

Love again
Love again
A cancellare la cenere

Uh settembre ormai
Le mie giornate si accorciano
Dove sei

Abiti qua dentro di me
Fuori di me nell’universo
Abiti qua sotto la pelle
Oltre le stelle nell’universo

Abiti qua pezzi di cuore
Sciamano al sole nell’universo

I gotta move se perdo te
I gotta move perdo anche me
I gotta move yeah yeah yeah yeah

Love again

Abiti qua dentro di me
Fuori di me nell’universo
Abiti qua sotto la pelle
Oltre le stelle nell’universo
Abiti qua pezzi di cuore
Sciamano al sole nell’universo

I gotta move, I wanna move, I gotta move
Love again, love again
I need to love again

 

Novembre 2015: great job, Ma’am!

Beautiful young teacher

E poi c’erano i complimenti.

Quelli che non ti aspetti, che sai come gestirli a ventisei anni, ma che, quando son troppi, comunque ti imbarazzano.
“Prof, ma sa che è ancora più bella, quando sorride?”

“La odio questa scuola, odio tutti i professori, io seguo solo perché ho un profondo rispetto per lei”

“Lei ci tiene troppo a noi, prof, si vede che si da da fare”

“E’ l’unica che stimiamo qua dentro”

“Io non ho mai seguito come da quando c’è lei a insegnarmi, prof”

“Prof, oggi è bellissima”

“Ma si rende conto se alla statale capitava una professoressa del genere il bordello che veniva fuori?”

Da una parte li capisco: essendo abituati a professori con un’età media da ospizio, incazzosi e con lo stesso charme di un gufo, quando poi ti ritrovi in classe una prof che ha solo qualche anno in più di te, giovane, alla mano, con una mentalità decisamente aperta e lo spirito giusto…bhe, era inevitabile che mi amassero.
(E dopo queste affermazioni, mi sono ufficialmente guadagnata le antipatie di tutti i cari professori della pubblica..perdonatemi, non siete tutti uguali, e ve lo siete sudato il posto, stando dall’altra parte della cattedra si capiscono tante cose e io ho capito quanta pazienza avete avuto con me…ma anche quanto vi è piaciuto avere il coltello dalla parte del manico e abusare del vostro potere)
Per la mia autostima personale, credo che non ci sia stata cosa migliore che insegnare in quella scuola. Non che io fossi nuova a certe esternazioni, parliamoci chiaro, una donna non è mai estranea agli apprezzamenti, però davvero, credo di non averne mai ricevuti tanti tutti insieme come in quei mesi.
Mi vedevano come una dea scesa in terra, senza scherzi, come l’incarnazione della professoressa ideale, come una donna di potere, una donna in carriera elegante, fine e realizzata.
Donna in carriera, io?
Sono una precaria, una fottuta futura disoccupata, jesus!
Avessi lavorato alla Casa Bianca, posso anche capire l’ammirazione suscitata in loro.
Ma ero solo una misera prof. Novella, fra l’altro.
Bhe, parliamoci chiaro, guadagnare la stima e l’approvazione di ragazzetti acerbi che sono abituati ad avere a che fare con coetanee il cui idolo è Justin Bibier…lo so, ti piace vincere facile, eh?
Bonsci bonsci bon bon bon.
Ma io ero perfettamente consapevole che la loro stima dipendesse dal fatto che avessero visto ancora così poco dalla vita. E, anche a costo di darmi la zappa sui piedi e di aprire loro gli occhi sulla realtà, glielo dicevo pure, che avevano gli occhi improciuttati e mi stavano solo idealizzando.
Ma loro continuavano, imperterriti.
Ora, non sto sminuendo la mia persona o altro. Io so quanto valgo. Come sono consapevole dei miei difetti, riconosco anche i pregi. Mi rendo conto che non sono da buttare, capisco che una ragazza che dimostri di avere anche un cervello oltre che due chiappe possa far colpo, non sputo sopra le mie due lauree e sopra alla mia cultura come fossero cose che chiunque possa sventolare come fossero date per scontate, anche perché sono una persona profondamente realista e ho rispetto per il tempo, l’impegno e i soldi che ci ho impiegato ma.. ritengo comunque che stessero esagerando.

Ci sono state delle occasioni in cui ho portato preparato loro dei dolci. Carnevale, Natale, per festeggiare l’inizio delle vacanze.
Non lo avessi mai fatto.
“Prof, sa pure cucinare?? NOOO, cioè, lei è la donna da sposare”
Questo me lo disse lo studente malefico, lui.
E’ una cosa che mi ha ripetuto più volte nel corso dell’anno.
“Che aspetta a chiederle di sposarlo?” mi chiedeva un altro, un biondino.
“Ma chi?” facevo, cadendo dalle nuvole.
“Il suo ragazzo…non capisco, cosa aspetta a chiederle la mano? Lei è perfetta”
“Ma chi si vuole sposare, darling?” rispondevo inorridita.
“Appunto: proprio per questo è perfetta”
A parte gli scherzi, a prescindere dai complimenti sull’aspetto fisico, i quali poco mi interessavano e lasciavano il tempo che trovavano perché ora parliamoci chiaro, è sin troppo facile far colpo su ventenni che probabilmente mi vedevano più come una panterona milf che li bacchettava che come una docente vera e propria; ma vogliamo parlare di quelli sul mio operato?
Vedere che ti sbatti e ti fai il culo e il tuo sforzo viene compreso e accettato, e che tanti casi persi riescono a risalire dalla fogna e a migliorare grazie al tuo aiuto, mi riempiva il cuore di gioia, e si, mi faceva sentire realizzata. Non l’ho mai fatto per il mio ego, lo facevo per dedizione, ma non posso nascondere che mi faceva sorridere dentro vedere che apprezzassero il mio impegno.

Intanto il tempo passava, e lo studente restava lo studente, e io la docente di lingue.

 

Ottobre 2015: a first approach

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L’iniziale antipatia che provavo verso lo studente fastidioso sempre pieno di domande scomode, si è poi sciolta e trasformata in stima. Stima reciproca, devo dire.

In una scuola privata, d’altronde, i casi umani sono molti, e nel marasma di gente maleducata, rissosa,  con lo stesso quoziente intellettivo di un pesce rosso e lo stesso interesse verso lo studio che io posso avere verso il punto croce- quindi, NULLO- riuscire a trovare persone educate, volenterose, capaci e davvero interessate allo studio, bhe, è davvero un miracolo, di conseguenza, le poche perle rare che avevo, inevitabilmente finivano per darmi quel tocco di motivazione in più e rischiarirmi la giornata, mentre gli altri, che dire, contribuivano a rabbuiarmela.

Se ci ripenso ora, specie i primi tempi, certe litigate che mi sembrava di uscire matta. Le ragazze, specie. Di una strafottenza e cafonaggine da record. Alcune erano talmente svogliate che a malapena trovavano la voglia di respirare, figurati di studiare o seguire, ed oltre ad essere ignoranti come una scarpa, erano pure di una maleducazione allucinante. Se non vuoi seguire va bene, rimarrai ignorante a vita, posso farmene una ragione, la cultura non è mai stata per tutti, ma, per dio, quantomeno non parlarmi sopra e permetti a chi vuole ascoltare di farlo senza mandarmi a puttane l’intera lezione con le tue moine da superdonna isterica.

Sarebbe stato da sbatterle al muro, invece dovevo contenermi a appiattirle contro il banco con la forza della mia voce e annichilirle con tutta la schiacciante personalità e il savoir faire di cui fossi capace per far ben capire loro chi diavolo è che comandava là dentro e riuscire ad avere quel minimo di rispetto e decenza che ci vorrebbe in ogni classe, nonché in ogni contesto sociale civile.

Col tempo, sarei riuscita a comprarmi anche la loro fiducia e il loro silenzio, e persino a volergli bene. Solo che all’epoca ancora non lo sapevo.

Nonostante gli scleri, le alzate di voce, e le madonne, insegnare cominciava a piacermi. Col tempo imparavo a saper conquistare ognuno di loro in modo diverso, a saper come prenderli, ogni alunno era dannatamente particolare e dovevo usare approcci e metodi completamente differenti per riuscire ad ottenere l’attenzione e i risultati necessari.

Riuscire a trasmettere qualcosa di mio mi stimolava, specie quando vedevo che la classe era ricettiva e invogliata, cosa ahimè davvero rara. Di conseguenza, mi sentivo soddisfatta solo se a fine lezione ero riuscita ad insegnare qualcosa, era diventata la mia missione, con le buone o con le cattive.

Mi svegliavo col sorriso dopo tanto tempo.

Lesson 1:the beginning

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Prima lezione della mia carriera da professoressa: inutile dire che ero un po’ tesa.
Cerco di ignorare l’imbarazzo che mi monta dentro e mi fingo disinvolta e sicura di me.
Non che di mio non lo sia, ma la prima volta in un nuovo posto di lavoro ha sempre un non so che di magnificamente brividoso ( e ho scoperto che quella sensazione ansiolitica di adrenalina mi piace). Specie in un posto come una scuola, dove devi dimostrare di avere palle, carattere, e soprattutto la cultura giusta e i metodi appropriati per trasmetterla adeguatamente.
Non è esattamente come essere l’ultima arrivata in un nuovo ufficio, lì tutti si aspettano che tu debba imparare il mestiere e farti la gavetta e le gaffe sono date per scontate. Qualcuno sopra di te ti darà qualche dritta.
Ma fare la prof è un’altra cosa. Sei tu che devi insegnare, da subito, dalla prima volta, anche se di esperienza in quel campo ancora non ne hai. E gli altri devono imparare da te. Hai un ruolo di potere che devi saper ricoprire. Un ruolo che non è fatto per tutti. E non si accettano sgarri. Non devono capire che in realtà sei solo una mocciosetta un po’ più cresciuta di loro. E che ancora ti fai le canne e se ti fanno imbufalire ti scappa qualche parolaccia. Giammai.
La direttrice mi apre la porta dell’aula con slancio e mi presenta ai ragazzi, entro, la classe tutta composta e ancora sileziosa, visi che si dipingono di curiosità, occhi che si spalancano, risatine, commenti.
Dopo un piccolo discorso di introduzione, lei chiosa e si dirige verso la porta.
La saluto, e mi lascia in balia di quei visi che ancora mi paiono angelici ma che io so, che in realtà sono piccole serpi velenose che mi scrutano, dietro i sorrisini beoni e dipinti, pronte a giudicarmi ed attaccarmi al primo passo falso. Non posso commettere errori, la prima impressione deve essere quella giusta, sennò dal dito si prenderanno la mano e così via.
Mi presento, ancora mi ricordo il mio discorsetto improvvisato col sorriso tirato in bocca: “Salve ragazzi, sarò la vostra professoressa di inglese, tranquilli, non sono cattiva..” e qualche altra boiata del genere.
Prendo subito le redini della situazione in mano, mi costruisco la facciata di donna sicura di sé che non si fa certo mettere i piedi in testa da quattro scapestrati di turno, chiedo se gli piace la lingua, li lascio parlare, chiedo a che punto sono del programma, e a che livello sono di inglese, e la lezione prende il via.
Li faccio leggere per capire il livello, facciamo qualche esercizio.
(…)
Dalla prima lezione, e dico, dalla prima, c’era uno studente che spiccava più degli altri.
Praticamente, uno dei pochi là dentro davvero interessato allo studio, quindi, che si distinguesse dalla massa era anche normale, se vogliamo.
Chiedeva, voleva leggere, si dava da fare, rispondeva repentino alle domande.
E rompeva anche il ca…, se proprio volete saperlo.
Avete presente quel classico elemento di disturbo che non vorreste mai, scusate il francesismo più da scolaretta che da docente, avere a coglioni la prima lezione della vostra vita da professoressa che vi accingete a fare?
Voi, appena laureate, con poca esperienza lavorativa alle spalle, che ancora non avete quella sicurezza dei vecchi professori data da anni e anni di esperienza alle spalle nonché da una perfetta conoscenza della lingua perpetuata nei secoli di insegnamento…e lui, l’elemento che comincia a fare domande scomode, fuori dal programma, quasi a volervi mettere in difficoltà, cerca persino di contraddirvi, o addirittura, dopo una domanda inaspettata sui verbi modali, va a cercare su suoi vecchi appunti per controllare se avete risposto giusto che la cosa non gli torna.
E fortunatamente, avevo risposto egregiamente bene.
Ecco, te, mollami, per dio!!!
Lasciami respirare, è la mia prima cazpio di lezione, vuoi capirlo, brutto arrogantello??
Sta cosa mi ha subito messa sotto pressione. Eppure, mi ha insegnato molto.
Benché fosse una classe per la maggior parte di caproni ignoranti la cui unica preoccupazione era come passare il tempo fra una sbronza e l’altra, piena di elementi che avrebbero scambiato Oscar Wilde per Mister Bean ai quali della cultura anglosassone non gliene poteva fregar di meno, ho subito capito che non potevo arrivare in classe ed essere preparata solo sulla lezione del giorno, non so, oggi facciamo Shakespire e via, ma dovevo necessariamente sapere previamente tutti gli autori più importanti inglesi, tutte le loro opere, e poi soprattutto non aspettarmi solo domande sull’argomento della lezione, ma su qualsiasi cosa dovesse competermi, non so, il primo ministro attuale inglese, il participio passato di tutti i verbi irregolari, la taglia di mutande della regina, il primo nome di battesimo del cane da tartufo di Carlo…TUTTO. La cosa mi innervosiva, ma DOVEVO essere sempre preparata, perché non potevo e non volevo fare la figura della prof inesperiente, giovincella e svampita che casca dal pero e alla prima domanda più specifica e rognosa inciampa e indice un vergognoso silenzio stampa, con sottotitoli cubitali che scritti rossi in fronte dalla vergogna dichiarano: “NON NE SO UNA CEPPA”.
Eh no, che non potevo. Perché c’erano anche persone volenterose, secchione, brave e rompicazzi che volevano apprendere qualcosa e, nel frattempo, si divertivano provando biecamente a insidiare la prof con domande stronze per vedere se era preparata a dovere.

Questa la mia prima impressione sulla scuola, sull’essere insegnante, e sullo studente secchione fastidioso.
Passo e chiudo.

 

Premessa: One year ago

For ur teacher friends

Settembre 2015

C’era una volta una prof di ventisei anni, anzi, all’epoca solo una neolaureata, che esattamente un anno fa mandava un curriculum ad una scuola privata della sua cittadina dove era tornata a vivere dopo aver preso la laurea magistrale.
Voleva vedere se quella era la strada per lei, se era fatta della pasta giusta per ricoprire quel ruolo che sin da piccola aveva sempre sognato.
Nel giro di qualche giorno si sarebbe ritrovata a fare un colloquio e ad essere assunta come docente in quella scuola privata.
Non sapeva che di lì a poco si sarebbe strappata i capelli ed esaurita perché in quella scuola erano concentrati tutti gli elementi più cafoni, strafottenti e somari della città, nonché i più viziati e egocentrici dell’intera regione, ma soprattutto non poteva assolutamente sapere che si sarebbe presa un’innocente sbandata per uno dei suoi studenti più secchioni e pieni di sé, cotta che poi avrebbe sublimato accontentandosi di passarci insieme qualche rognosa ora di lezione a settimana erudendolo sui misteri della lingua inglese, e che sarebbe rimasta innocentemente tale per i lunghi mesi a venire.
Eh no, che non poteva saperlo, la nostra neo prof.
La prof all’epoca era già fidanzata da anni.
Se è per questo, anche lo studente lo era. Ma questo è un altro discorso.
Certo, c’erano state delle crisi durante la loro storia e dei comportamenti per così dire non troppo orsolini, come in ogni rapporto che non sfugge alle leggi del tempo e della triste realtà.
Magari qualche avvisaglia che la relazione potesse esser messa in crisi da qualche uomo interessante che lei poteva potenzialmente incontrare sulla sua strada nel nuovo ambiente lavorativo che si apprestava a frequentare poteva esserci.
Sai, l’attrattiva del nuovo, dell’ignoto.
Se fosse stato un altro ambiente lavorativo, però.
Non so, un qualsiasi ufficio di qualche multinazionale.
Un hotel.
Un cesso di un autogrill, persino (d’altronde di questi tempi, anche con due lauree potresti tranquillamente finire a sgobbare pulendo i pavimenti sulla statale..)
Insomma, un qualsiasi altro ambiente di lavoro.
Ma, per diamine, non una scuola.
Se proprio doveva pensare ad un luogo che sarebbe per lei potuto essere, in quel senso, un luogo di perdizione, non si immaginava certo una spartana scuola superiore piena zeppa di ragazzini ancora acerbi e pretenziosi, che se le diceva culo erano solo spocchiosi figli di papà, e se invece la diceva sfiga, erano casi umani più preferibilmente destinati ad un riformatorio che ad un istituto di istruzione secondaria.
Perché, va bene le avvisaglie, va bene che ci era già passata, va bene che potenzialmente dopo anni di tranquillità si sentiva diciamo “suscettibile” da quel punto di vista, ma, diodelcielo, che riesci a trovarti il potenziale “elemento di disturbo” persino in una scuola dove il più grande c’ha vent’anni, ha appena finito l’età dello sviluppo e per di più è anche un tuo studente che ha circa la metà degli anni del tuo partner ufficiale, mentre te nel frattempo sei nell’età in cui le tue coetanee più svelte metton su famiglia e sfornano bambini e convivenze come non ci fosse un domani….che diamine, ad arrivar a pensar così male ce ne vuole, eh….
Eh no, non poteva immaginare che proprio lì dentro sarebbe successo.
E non credeva di poter arrivare così in basso.
Al limite coi colleghi, se proprio doveva succedere. Sarebbe stato più credibile. Anche se quello il più figo aveva lo stesso sex appeal di un totano bagnato e la stessa pettinatura di Magalli.
Ma così no, dai.
Che scandalo, che caduta di stile, che danno…

Eppure, non è mai stato tanto dolce e miracoloso scivolare nella disfatta.
L’errore ad un certo punto è stato inevitabile, come scivolare sul ghiaccio correndo e bagnarsi le ginocchia. Non si è ferita, non esce sangue, ma la botta l’ha presa dentro e anche se non si vedono, i lividi già pulsano da sotto i jeans fradici.