Prima lezione della mia carriera da professoressa: inutile dire che ero un po’ tesa.
Cerco di ignorare l’imbarazzo che mi monta dentro e mi fingo disinvolta e sicura di me.
Non che di mio non lo sia, ma la prima volta in un nuovo posto di lavoro ha sempre un non so che di magnificamente brividoso ( e ho scoperto che quella sensazione ansiolitica di adrenalina mi piace). Specie in un posto come una scuola, dove devi dimostrare di avere palle, carattere, e soprattutto la cultura giusta e i metodi appropriati per trasmetterla adeguatamente.
Non è esattamente come essere l’ultima arrivata in un nuovo ufficio, lì tutti si aspettano che tu debba imparare il mestiere e farti la gavetta e le gaffe sono date per scontate. Qualcuno sopra di te ti darà qualche dritta.
Ma fare la prof è un’altra cosa. Sei tu che devi insegnare, da subito, dalla prima volta, anche se di esperienza in quel campo ancora non ne hai. E gli altri devono imparare da te. Hai un ruolo di potere che devi saper ricoprire. Un ruolo che non è fatto per tutti. E non si accettano sgarri. Non devono capire che in realtà sei solo una mocciosetta un po’ più cresciuta di loro. E che ancora ti fai le canne e se ti fanno imbufalire ti scappa qualche parolaccia. Giammai.
La direttrice mi apre la porta dell’aula con slancio e mi presenta ai ragazzi, entro, la classe tutta composta e ancora sileziosa, visi che si dipingono di curiosità, occhi che si spalancano, risatine, commenti.
Dopo un piccolo discorso di introduzione, lei chiosa e si dirige verso la porta.
La saluto, e mi lascia in balia di quei visi che ancora mi paiono angelici ma che io so, che in realtà sono piccole serpi velenose che mi scrutano, dietro i sorrisini beoni e dipinti, pronte a giudicarmi ed attaccarmi al primo passo falso. Non posso commettere errori, la prima impressione deve essere quella giusta, sennò dal dito si prenderanno la mano e così via.
Mi presento, ancora mi ricordo il mio discorsetto improvvisato col sorriso tirato in bocca: “Salve ragazzi, sarò la vostra professoressa di inglese, tranquilli, non sono cattiva..” e qualche altra boiata del genere.
Prendo subito le redini della situazione in mano, mi costruisco la facciata di donna sicura di sé che non si fa certo mettere i piedi in testa da quattro scapestrati di turno, chiedo se gli piace la lingua, li lascio parlare, chiedo a che punto sono del programma, e a che livello sono di inglese, e la lezione prende il via.
Li faccio leggere per capire il livello, facciamo qualche esercizio.
(…)
Dalla prima lezione, e dico, dalla prima, c’era uno studente che spiccava più degli altri.
Praticamente, uno dei pochi là dentro davvero interessato allo studio, quindi, che si distinguesse dalla massa era anche normale, se vogliamo.
Chiedeva, voleva leggere, si dava da fare, rispondeva repentino alle domande.
E rompeva anche il ca…, se proprio volete saperlo.
Avete presente quel classico elemento di disturbo che non vorreste mai, scusate il francesismo più da scolaretta che da docente, avere a coglioni la prima lezione della vostra vita da professoressa che vi accingete a fare?
Voi, appena laureate, con poca esperienza lavorativa alle spalle, che ancora non avete quella sicurezza dei vecchi professori data da anni e anni di esperienza alle spalle nonché da una perfetta conoscenza della lingua perpetuata nei secoli di insegnamento…e lui, l’elemento che comincia a fare domande scomode, fuori dal programma, quasi a volervi mettere in difficoltà, cerca persino di contraddirvi, o addirittura, dopo una domanda inaspettata sui verbi modali, va a cercare su suoi vecchi appunti per controllare se avete risposto giusto che la cosa non gli torna.
E fortunatamente, avevo risposto egregiamente bene.
Ecco, te, mollami, per dio!!!
Lasciami respirare, è la mia prima cazpio di lezione, vuoi capirlo, brutto arrogantello??
Sta cosa mi ha subito messa sotto pressione. Eppure, mi ha insegnato molto.
Benché fosse una classe per la maggior parte di caproni ignoranti la cui unica preoccupazione era come passare il tempo fra una sbronza e l’altra, piena di elementi che avrebbero scambiato Oscar Wilde per Mister Bean ai quali della cultura anglosassone non gliene poteva fregar di meno, ho subito capito che non potevo arrivare in classe ed essere preparata solo sulla lezione del giorno, non so, oggi facciamo Shakespire e via, ma dovevo necessariamente sapere previamente tutti gli autori più importanti inglesi, tutte le loro opere, e poi soprattutto non aspettarmi solo domande sull’argomento della lezione, ma su qualsiasi cosa dovesse competermi, non so, il primo ministro attuale inglese, il participio passato di tutti i verbi irregolari, la taglia di mutande della regina, il primo nome di battesimo del cane da tartufo di Carlo…TUTTO. La cosa mi innervosiva, ma DOVEVO essere sempre preparata, perché non potevo e non volevo fare la figura della prof inesperiente, giovincella e svampita che casca dal pero e alla prima domanda più specifica e rognosa inciampa e indice un vergognoso silenzio stampa, con sottotitoli cubitali che scritti rossi in fronte dalla vergogna dichiarano: “NON NE SO UNA CEPPA”.
Eh no, che non potevo. Perché c’erano anche persone volenterose, secchione, brave e rompicazzi che volevano apprendere qualcosa e, nel frattempo, si divertivano provando biecamente a insidiare la prof con domande stronze per vedere se era preparata a dovere.
Questa la mia prima impressione sulla scuola, sull’essere insegnante, e sullo studente secchione fastidioso.
Passo e chiudo.